I fatti di Parigi, e l’onda della paura
Il risveglio di questa mattina è stato brusco, un messaggio sul telefono mi chiedeva “hai visto quello che è successo a Parigi”? Corro ancora assonnata ad accendere la tv….buio, auto, persone in fuga, polizia ovunque, e quella torre, simbolo mondiale, spenta sullo sfondo delle luci di una delle città più conosciute e amate al mondo…lacrime, ancora lacrime e dolore, immenso dolore che sembrava bucare lo schermo e raggiungermi, come un’onda d’urto , anche nella mia cucina che profumava di caffè.
Immediato il mio immedesimarsi in quel dolore…per mestiere o attitudine, l’empatia verso i sopravvissuti, verso le famiglie dei dispersi e delle vittime è stata spontanea e naturale…mi sono chiesta “se accadesse a me? Se accadesse a me vivere quel terrore?” e qui ci siamo, il terrore…esattamente quello che il terrorismo vuole provocare o forse non solo.
Nel tentativo di definire cosa sia il terrorismo, sono stati utilizzati nel corso del tempo diverse definizioni. Alcune di queste, a partire dall’etimologia del termine, presentano come terroristica quella violenza politica che si pone l’obiettivo – o ha l’effetto – di ‘creare terrore’. Il terrore appunto spaventa, annienta, immobilizza, toglie quindi la capacità di reagire, o perlomeno vorrebbe.
Questa concettualizzazione comporta però, in primo luogo, la difficoltà di misurare gli stati psicologici di alcuni individui o gruppi. Il fatto di sottolineare l’effetto emotivo atteso, inoltre, fa si che si sottovaluti che l’obiettivo principale di molte azioni dei gruppi terroristici è quello di raccogliere consenso, piuttosto che di terrorizzare.
E forse, occorre accogliere ed entrarci in quella rabbia, quella reazione che istintivamente prova non solo chi si trova a subire un’ingiustizia di questo tipo, quella che ho provato anch’io questa mattina e che probabilmente mi spinge a scrivere (le emozioni scuotono l’anima, stare su quelle emozioni forse, porta a creare… -ndr-); è possibile che la stessa emozione muova interiormente coloro che prendono parte a movimenti ed azioni terroristiche di tale portata? Accogliere la rabbia ed entrarci dunque, potrebbe essere la chiave giusta per comprendere ed agire nelle occasioni in cui ci troviamo di fronte ad atti simili?
E’ sul portale dell’ITSTIME – Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies, ovvero il Centro di Ricerca sul terrorismo e la gestione delle emergenze dell’Università Cattolica di Milano, di questa mattina, un intervento del ricercatore Marco Lombardi, direttore del Centro, che fa degli eventi di Parigi una lettura in termini di vero e proprio atto di guerra.
Cito inoltre testualmente “immediatamente dopo gli attacchi allo stadio, ai bar e ristoranti, al teatro di Parigi si è detto che è un attacco allo stile di vita occidentale. E ciò è vero. E di conseguenza si è data una sorta di risposta automatica che suona: “ma noi non dobbiamo cambiarlo”. E ciò è parzialmente vero. Perché sarà forse utile cambiarlo come si è sempre fatto in tempo di guerra: per riaffermarne la bontà del nostro modo di vivere, oggi dobbiamo essere capaci di difenderlo, consapevoli che un nemico esiste e che lo si combatte”.
Se questo, quindi, è un interessante punto di vista sociologico utile ai fini di un orientamento politico alla risoluzione del problema, come psicologa mi chiedo se un’analisi non vada fatta dall’interno: quali sono i meccanismi per cui i terroristi fanno proselitismo? Su cosa fanno leva? Quali sono i bisogni che sollecitano, sono bisogni di base o indotti? E di contro come possiamo agire noi, vittime e spettatori per non essere solamente inermi ma attivi nel combattere un fenomeno che non riguarda “altre persone”, ma noi stessi?
In questi casi infatti è dietro l’angolo il rischio di incorrere in un fenomeno conosciuto in psicologia sociale come “Diffusione di responsabilità”, per il quale una persona ha minori probabilità di assumersi responsabilità per un’azione quando altri sono presenti. Il singolo individuo, infatti, può pensare o che gli altri siano responsabili di agire o che abbiano già preso tale responsabilità. Il fenomeno tende a presentarsi in gruppi di persone sopra un certo numero e quando la responsabilità non è specificatamente assegnata. Pensiamoci. La responsabilità di cambiare le cose è mia, è tua, è di noi tutti.
Accogliere dunque le emozioni che ci suscitano atti simili è il primo passo, dopo un’iniziale sgomento silenzio, per combattere il terrorismo dall’interno, per non rimanere inermi, per non farsi annientare.
Dott.sa Elena Tigli
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